L’etica del silenzio
Sono poco avvezzo ai social per scelta personale, anche se a volte mi rendo conto che non tutto quello che “si posta” rientra nella immensa famiglia delle baggianate.
Ma, inderogabilmente, ogni giorno mi collego alle varie testate giornalistiche nazionali e non per rendermi conto delle novità che possono riguardare anche il mio piccolo universo.
Nello specifico, riflettendo sull’ultimo naufragio conosciuto (spesso dimentichiamo i naufragi lontani da telecamere che si rendono palesi solo quando i pescherecci di altura, insieme ai gamberi rossi, recuperano corpi di migranti) avvenuto sulle coste calabresi, mi viene confermato una volta di più la vastità dei confini marittimi del sud Italia e di quanto “naturale” sia per gli abitanti al confine soccorrere, accogliere, pregare per quanti cercano scampo da situazioni di pericolo, da guerre, da carestie che diventano migranti.
Nessuna demagogia, nessun dietrologismo; solo costatazione di quanto tutti noi (mi i metto anch’io quando non riesco a mostrare in tutta la sua interezza il mondo delle migrazioni) corriamo alla notizia quando i numeri di vittime supera la decina di unità.
Ma occorre anche costatare il bisogno quasi morboso di quanti, per ragioni legate al ruolo che ricoprono a livello istituzionale, di dover giustificare l’ingiustificabile, di dover dare assolutamente una spiegazione a scelte di carattere meramente politico riguardo al mondo delle migrazioni.
Ascoltando i lanci di agenzia anche di dicasteri impegnati nello specifico, si nota la freddezza (per usare un termine non censurabile) di chi dovrebbe, per ruolo, intervenire in primo luogo sull’immediato, ovvero salvare vite umane; quello che concerne la mancanza dell’Europa in questi lunghi 10 anni nell’intervento fattivo a sostegno dell’Italia nel soccorso in mare dei migranti, si deve portare su altri tavoli di discussione.
Non è umanamente accettabile che per discutere di regole etiche si scelgano i relitti del caicco naufragato quasi sulla battigia di un nostro confine marittimo.
Non è eticamente accettabile che si debba dare a tutti i costi censurare il comportamento di chi tra quei flutti ci è morto e, forse ancor peggio, si è salvato perdendo figli, mogli mariti, amici.
Ascoltando le dichiarazioni fatte da autorevoli personalità, si percepisce quanto il mondo reale, quello degli scontri tribali in Africa, delle guerre in Medio Oriente, delle carestie e delle epidemie sia su un altro livello (molto più in basso) rispetto a quanto viviamo tutti noi, a quest’altro lato del confine marittimo che sono le nostre spiagge.
È semplicistico parlare di etica morale quando i soli boati che ascoltiamo negli ultimi 70 anni sono quelli di capodanno (fatte le dovute eccezioni per le stragi di mafia e gli atti terroristici degli anni ’70 del secolo scorso).
L’etica morale, della quale si discute in conferenze stampa allestite in tutta fretta, andrebbe sostituita con l’etica del silenzio riflessivo, rispettoso, di quel silenzio in cui sono sprofondati i superstiti di questo e di tutti i naufragi conosciuti.
Se il parlare di vite umane lo riduciamo ad una dialettica scadente dal punto di vista umano e a volte anche offensiva (basti ricordare il termine “carico residuale” riferito a migranti ancora ospiti delle navi ong attraccate alla banchina e lì lasciate per giorni), forse è il momento di non dover correre dietro alle tragedie ma di cercare di prevenirle o, almeno evitarle, visto che le nostre unità marittime militari continuano senza sosta ad intervenire in soccorso di quanti, anche nel silenzio di un mare da attraversare, hanno ancora negli occhi e nelle orecchie gli orrori di guerre e di conflitti dai quali cercano di salvarsi, loro e i loro figli, al di là di ogni etica comportamentale suggerita dai nostri governanti.
Almeno per il tempo delle ricerche di altre vittime della barbarie umana, asteniamoci dalle parole inutili e mortificanti, che non ci appartengono come Chiesa e come uomini.
Trani 28 febbraio 2023 Riccardo Garbetta
Direttore diocesano Migrantes