2024.06.07.Riflessione_Arcivescovo_Giornata_della_Santificazione_Sacerdotale
«Carissimi Fratelli Sacerdoti, oggi, nella Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, celebriamo la Giornata della Santificazione Sacerdotale. Una giornata di preghiera suggerita dal Dicastero per il Clero (all’epoca Congregazione) e istituita il 25 marzo 1995 da San Giovanni Paolo II, perché la preghiera offerta per la santificazione dei Sacerdoti possa ottenere di riflesso il dono della santità di tutto il Popolo di Dio, a cui il loro ministero è ordinato. In effetti, il sacerdozio ministeriale è al servizio di quello comune di tutti i battezzati, che si attua concretamente nella risposta libera e gioiosa alla chiamata universale alla santità.
Il legame tra questa Giornata e la festa del Sacro Cuore suggerisce immediatamente la necessità di ritornare a contemplare il cuore del Maestro, a posare il capo sul suo petto tutte le volte che ne avvertiamo il bisogno, e di attingere continuamente al fiume di grazia e di misericordia che scaturisce dal suo fianco trafitto, per riscoprire la bellezza del ministero ordinato e ravvivare il dono ricevuto» (Dicastero per il Clero, Giornata della Santificazione Sacerdotale, 5 ottobre 2023).
Riscoprire la bellezza del nostro ministero e ravvivare il dono ricevuto domandano a ciascuno di noi di vivere l’esperienza dell’amicizia profonda con il Signore e posare il nostro capo sul suo petto, consapevoli delle stanchezze, delle delusioni o scoraggiamenti che ci accompagnano. Contemporaneamente, domandano di vivere l’esperienza di amicizia con Gesù e attingere al fiume di grazia e di misericordia che scaturisce dal suo fianco trafitto, consapevoli delle nostre mancanze.
In una lettera di Santa Caterina da Siena a fra Tommaso della Fonte, suo primo confessore, così leggiamo:
«questa cella è come un pozzo, che contiene l’acqua e la terra. […] la terra è la nostra miseria: conosciamo, infatti, che noi per noi stessi non siamo, e che riceviamo da Dio il nostro essere. Inestimabile e infuocata carità. Ci è data l’acqua viva, cioè la vera conoscenza della dolce e vera volontà di Dio, il quale non vuole altro che la nostra santificazione. Entriamo, dunque, nelle profondità di questo pozzo: standoci dentro, necessariamente avverrà che conosciamo noi stessi e l’amore di Dio per noi. Conoscendo noi stessi come coloro che per sé non sono, diveniamo piccoli e umili, ed entriamo così nel cuore di Gesù, ardente, consumato d’amore e squarciato dalla ferita, come una finestra senza imposte che non si chiude mai. E guardandoci dentro, con l’occhio della volontà libera che Dio ci dona, vediamo e conosciamo che egli altro non vuole che la nostra santificazione».
La santificazione, per ognuno di noi, passa attraverso l’amicizia con Gesù e, contemporaneamente, è quel riconoscimento della nostra povertà che ci permette di avvicinarci a Lui perché rinnovi e renda bello il nostro essere preti. È questo il percorso che fece il primo degli apostoli.
Pietro era stato destinatario di una scelta speciale da parte di Gesù: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18); «Tu sei Simone… Ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)» (Gv 1,42). Questa, in qualche modo, è anche la storia della nostra vocazione, abbiamo ricevuto un nome nuovo, una missione, un compito particolare da realizzare nella storia della salvezza.
E Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai». Gli disse Gesù: «In verità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte». E Pietro gli rispose: «Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò» (Matteo 26,33-35).
Come ben sappiamo, Pietro rinnegò Gesù per ben tre volte e affermò: «Non conosco quell’uomo» (Mt 26,72).
A questo tradimento seguono le lacrime dell’apostolo e poi la riscoperta della bellezza della relazione con Gesù: dopo aver mangiato del pesce insieme ai discepoli, il Risorto gli domanda: «Simone di Giovanni, mi ami tu?» (Gv 21,16). Sentiamo queste parole rivolte a noi…
Amicizia con Gesù e dolore dei peccati
Santa Teresa d’Avila dice che è un’ingenuità supporre che «le anime con le quali nostro Signore si comunica in un modo che si crederebbe privilegiato, sono, nonostante ciò, così sicure di questo che non debbono mai più sentire la necessità di temere o di piangere i loro peccati». Il dolore e il riconoscimento dei propri peccati, dei propri errori, è qualcosa che riguarda ogni persona, perfino coloro che vivono esperienze mistiche particolari, certamente anche noi presbiteri.
«Dovete essere veramente testimoni di un modo diverso di fare e di comportarvi. Ma nella vita è difficile che tutto sia chiaro, preciso, disegnato in maniera retta. La vita è complessa, è fatta di grazia e di peccato. Se uno non pecca, non è uomo. Tutti sbagliamo e dobbiamo riconoscere la nostra debolezza. Un religioso che si riconosce debole e peccatore non contraddice la testimonianza che è chiamato a dare, ma anzi la rafforza, e questo fa bene a tutti. Ciò che mi aspetto è dunque la testimonianza. Desidero dai religiosi questa testimonianza speciale» (Papa Francesco, Svegliate il mondo, Colloquio con i Superiori Generali, 29 novembre 2013).
Conseguenza del peccato e di un amore ferito
Parliamo di un dolore che è naturale conseguenza di qualcosa che ci ha fatto del male, che ci ha feriti, e che ha lasciato un segno. Il peccato ferisce chi lo compie ma anche gli altri, l’ambiente e perfino il cuore di Dio, il cuore trafitto di Gesù crocifisso (cf. il peccato dei progenitori descritto nel capitolo 2 del libro della Genesi).
È conseguenza di un amore ferito. Soltanto chi ama veramente è capace di questo dolore. Una ferita che fa soffrire. Il suo abituale riconoscimento è possibilità di risalire alla sua origine: una storia di amore …che ancora continua!
Dal catechismo
- Che cos’è il dolore dei peccati?
Il dolore dei peccati consiste in un dispiacere e in una sincera detestazione dell’offesa fatta a Dio.
- Di quante specie è il dolore?
Il dolore è di due specie: perfetto, ossia di contrizione; imperfetto, ossia di attrizione.
- Qual è il dolore perfetto o di contrizione?
Il dolore perfetto è il dispiacere di avere offeso Dio, perché infinitamente buono e degno per se stesso di essere amato.
- Qual è il dolore imperfetto o di attrizione?
Il dolore imperfetto o di attrizione è quello per cui ci pentiamo di avere offeso Dio, come sommo Giudice, cioè per timore dei castighi meritati in questa o nell’altra vita o per la stessa bruttezza del peccato.
Anestesie al dolore
A volte si fa finta di niente, ci si anestetizza da questo tipo di dolore, oppure si opera una scissione tra dolore e peccato: si vive il peccato e apparentemente non si sente dolore. Come Davide e il suo peccato con Betsabea, e poi contro Uria, tutto il racconto del capitolo 11 del secondo libro di Samuele non indica alcun sentimento che accompagni le sue scelleratezze…
Nella prima epoca spirituale degli EE (cf S. Ignazio di Lojola), il demonio tenta in modo grossolano facendoci intravvedere i piaceri legati al peccato… altro che dolore! È una modalità di anestetizzare il dolore.
È vivere in modo inappropriato l’esperienza del peccato con il contenuto emotivo corrispondente: è come se uno prendesse tra le mani un ferro rovente e avvertisse una sensazione gradevole, mentre il tessuto della pelle irrimediabilmente viene danneggiato. O facesse del male ad una persona e fosse soddisfatto, contento, mentre l’altro soffre e viene umiliato. Tutto ciò non è normale, indica modalità masochistiche o sadiche, modalità problematiche!
È la sclerocardia, il cuore duro e insensibile che non sente dolore e, probabilmente, neanche vera gioia.
È l’accidia, ossia l’impantanamento nelle cose materiali, l’insensibilità alle cose dello Spirito e al dolore che consegue quando allo Spirito ci si chiude.
Abituale riconoscimento
L’abituale riconoscimento attiva l’esperienza del dolore là dove fosse stata messa a tacere. Questo dolore è opportunità: «Alla donna disse: Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli» (Gen 2,16); «All’uomo disse: Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: “Non devi mangiarne”, maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita» (Gen 2,17). Non è un dolore/punizione ma aiuto per non dimenticare la propria dimensione creaturale.
L’abituale riconoscimento dei nostri peccati, è la via che ci porta ad avere la giusta consapevolezza di noi stessi: creature segnate in tanti modi dal limite e dal peccato:
- Vita ansiosa che porta a percepire l’intervento di Dio come in ritardo, e ad allontanarsi dalla via del Signore senza tardare (Cf. Esodo, 32);
- Vita bradicardica, o da bradipo, che porta a delegare ad altri quello che mi compete, rimanendo fermo nelle mie comodità dove mi trovo… (Cf. 2 Samuele, 11);
- Vita irriconoscente che porta a reclamare qualcosa – dammi la parte che mi spetta; non mi hai mai dato – senza accorgersi che mi è stato già dato tutto – tutto ciò che è mio è tuo (Cf. Luca 15).
«Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi» (1 Gv 1, 8-10).
Questa consapevolezza, non deve portarci ad una bassa stima di sé. Non potremmo vivere in modo equilibrato e maturo se vivessimo con una disistima di noi: saremmo abitualmente male, tristi… Questo atteggiamento ci dona l’opportunità di avere una stima di noi fondata, questa volta, a partire dallo sguardo di Dio, uno sguardo misericordioso, capace di perdonarci troppo perché vede in noi creature preziose, sua immagine e somiglianza.
«Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna» (1 Tm 1, 12-16).
Per concludere
Dunque, l’abituale riconoscimento dei nostri peccati ci rimanda al Cuore di Gesù, al volto umano di Dio in Gesù di Nazareth. Il culto del Sacro Cuore ci aiuta a comporre la consapevolezza dei nostri peccati con la consapevolezza della misericordia di Dio, del suo sguardo che ci rende degni di fiducia.
Questa consapevolezza, è consapevolezza di perdono ricevuto e responsabilità di farci donatori di perdono quando celebriamo il sacramento della riconciliazione come ministri, ma anche nelle situazioni che accompagnano la nostra vita, le nostre relazioni, che domandano un cambiamento, una conversione nella direzione dell’amore, della fraternità.
Così diceva San Leopoldo Mandic: «Signore, perdonami se ho perdonato troppo. Ma sei tu che mi hai dato il cattivo esempio!». Seguiamo con coraggio questo cattivo esempio, con la consapevolezza dei nostri peccati che diventa consapevolezza del perdono abbondante ricevuto e responsabilità di vivere il perdono, abbondante, nei confronti dei fratelli.
La segnaletica del Calvario
In questo scritto di don Tonino Bello, troviamo delle indicazioni concrete per arrivare al cuore di Gesù, per maturare nel cammino di santificazione, riscoprire la bellezza del nostro ministero e ravvivare il dono ricevuto:
«Miei cari fratelli, sulle grandi arterie, oltre alle frecce giganti collocate agli incroci, ce ne sono ogni tanto delle altre, di piccole dimensioni, che indicano snodi secondari. Ora, per noi che corriamo distratti sulle corsie preferenziali di un cristianesimo fin troppo accomodante e troppo poco coerente, quali sono le frecce stradali che invitano a rallentare la corsa per imboccare l’unica carreggiata credibile, quella che conduce sulla vetta del Golgota? Ve ne dico tre. Ma bisogna fare attenzione, perché si vedono appena.
La freccia dell’accoglienza. É una deviazione difficile, che richiede abilità di manovra, ma che porta dritto al cuore del Crocifisso. Accogliere il fratello come un dono. Non come un rivale. Un pretenzioso che vuole scavalcarmi. Un possibile concorrente da tenere sotto controllo perché non mi faccia le scarpe. Accogliere il fratello con tutti i suoi bagagli, compreso il bagaglio più difficile da far passare alla dogana del nostro egoismo: la sua carta d’identità! Si, perché non ci vuole molto ad accettare il prossimo senza nome, o senza contorni, o senza fisionomia. Ma occorre una gran fatica per accettare quello che è iscritto all’anagrafe del mio quartiere o che abita di fronte a casa mia. Coraggio! Il Cristianesimo è la religione dei nomi propri, non delle essenze. Dei volti concreti, non degli ectoplasmi. Del prossimo in carne ed ossa con cui confrontarsi, e non delle astrazioni volontaristiche con cui crogiolarsi.
La freccia della riconciliazione. Ci indica il cavalcavia sul quale sono fermi, a fare autostop, i nostri nemici. E noi dobbiamo assolutamente frenare. Per dare un passaggio al fratello che abbiamo ostracizzato dai nostri affetti. Per stringere la mano alla gente con cui abbiamo rotto il dialogo. Per porgere aiuto al prossimo col quale abbiamo categoricamente deciso di archiviare ogni tipo di rapporto. È sulla rampa del perdono che vengono collaudati il motore e la carrozzeria della nostra esistenza cristiana. È su questa scarpata che siamo chiamati a vincere la pendenza del nostro egoismo ed a misurare la nostra fedeltà al mistero della croce.
La freccia della comunione. Al Golgota si va in corteo, come ci andò Gesù. Non da soli. Pregando, lottando, soffrendo con gli altri. Non con arrampicate solitarie, ma solidarizzando con gli altri che, proprio per avanzare insieme, si danno delle norme, dei progetti, delle regole precise, a cui bisogna sottostare da parte di tutti. Se no, si rompe qualcosa. Non il cristallo di una virtù che, al limite, con una confessione si può anche ricomporre. Ma il tessuto di una comunione che, una volta lacerata, richiederà tempi lunghi per pazienti ricuciture. Il Signore ci conceda la grazia di discernere, al momento giusto, sulla circonvallazione del Calvario, le frecce che segnalano il percorso della Via Crucis. Che è l’unico percorso di salvezza». (Don Tonino Bello, La segnaletica del Calvario)
foto di repertorio